FuoriClasse - Giovanni Boccaccio

A cura di Carmelo Tramontana

Unità didattica

Giovanni Boccaccio

Boccaccio (1313-1375) nasce a Certaldo (Firenze) da Boccaccio di Chelino, mercante al servizio della compagnia finanziaria dei fiorentini Bardi. A Napoli, dove i Bardi hanno un’importante piazza commerciale, Boccaccio arriva giovane, forse quindicenne, per apprendere i rudimenti dell’arte della mercatura e studiare diritto presso il locale studium universitario. All’ambiente della corte angioina, caratterizzato da una cultura cortese raffinata ed internazionale, risalgono le prime prove letterarie. Tra queste, segnate da un programmatico sperimentalismo, spiccano il Filocolo, il primo romanzo in prosa della letteratura italiana, e il Filostrato, poema in versi in cui Boccaccio mette a punto, forse rielaborando modelli orali, il metro dell’ottava narrativa. Tornato a Firenze intorno al 1340, Boccaccio vi affronta una doppia crisi: economica e sanitaria-medica. In quegli anni infatti molte importanti compagnie finanziare fiorentine, e i Bardi tra queste, falliscono travolte da una grave crisi finanziaria e poi, nel 1348, scoppia una violentissima epidemia di peste, tra le più gravi che il continente europeo ricordi. A questi anni risale il progetto e la redazione del capolavoro boccacciano, il Decameron, una raccolta di cento novelle incastonate in una cornice narrativa. Dietro lo stimolo e l’influsso di Petrarca, conosciuto personalmente nel 1350, Boccaccio si dedica sempre più al culto della humanae litterae, al cui studio consacra opere erudite e preziose come la Geneologia deorum gentilium. L’ammirazione per il contemporaneo Petrarca si accompagna al culto per l’opera di Dante, cui dedica per tutta la vita passione e cura, commentandone l’opera e copiandola di propria mano. Muore nel 1375 a Firenze, proprio nei mesi in cui sta conducendo, per conto del comune fiorentino, una serie di letture pubbliche della Commedia dantesca nella chiesa di Santo Stefano della Badia.

Il Decameron

Il Decameron, il cui titolo allude alle dieci giornate in cui vengono raccontate le cento novelle, completa, insieme alla Commedia di Dante e al Canzoniere di Petrarca, la stagione fondativa della letteratura italiana. Si tratta di tre opere canoniche in un senso profondo e storicamente irripetibile: esse costituiscono gli archetipi di tre fondamentali modi che il discorso letterario assume nella modernità. Nelle letterature moderne, infatti, la narrazione di ampio respiro, impegnativa per la mole, per l’esemplarità del protagonista e delle vicende da lui vissute, prende avvio dal modello della Commedia dantesca, così come la poesia lirica intesa come sistematica analisi dei moti dell’anima, con l’amore al primo posto, prende le mosse dal modello del Canzoniere petrarchesco. A questa stagione fondativa Boccaccio contribuisce in due modi, grazie alla struttura peculiare del Decameron: da una parte egli con le sue novelle offre l’esempio di una narrazione breve duttile, poliedrica e capace di adattarsi alle più svariate esigenze (dal realismo quotidiano al fantastico, dall’elegiaco al comico) grazie alla concentrazione dell’intreccio e allo spessore del carattere dei personaggi; dall’altra, grazie all’espediente della cornice, l’autore fornisce l’esempio di un’architettura globale che non sacrifica l’attenzione verso i singoli casi particolari (narrati nelle singole novelle) ma anzi la porta a un livello più alto di significazione universale.
Le cento novelle del Decameron sono incorniciate in una storia portante che le situa in un tempo e in un luogo precisi: Firenze, nel 1348, al tempo della «mortifera pestilenza». La storia narrata nella cornice ha come protagonisti dieci giovani fiorentini di nobile origine, i quali reagiscono alla morte fisica e morale seminata dalla peste fuggendo dalla città, piagata nel corpo e nello spirito dalla pestilenza, e rifugiandosi nel contado. Qui nel «giardino», un ambiente confortevole legato al raffinato «palagio» (una ricca residenza di campagna, Introduzione § 91) in cui soggiornano, i dieci giovani dell’«onesta brigata» si riuniscono per raccontare e ascoltare storie, le cento novelle o, come scrive Boccaccio con un solo, fulminante verbo, per «ragionare» insieme (Introduzione I §1). «Ragionamento», e il verbo da cui deriva «ragionare», indica sinteticamente azioni diverse ma simbolicamente unite: narrare, ascoltare, commentare. Ragionare è dunque compiere tutte e tre queste azioni, le quali sono inseparabili perché accomunate dalla misura umana della ragione, il cui esercizio si compie in ciascuna di esse (narrare, ascoltare, commentare). Il «giardino», che è lo spazio fisico e ideale in cui la brigata racconta e ascolta le novelle, non è natura selvaggia, ma uno spazio curato sapientemente dalla mano dell’uomo per offrire frutti e piacevole ristoro. Tra «palagio» e «giardino», i giovani novellatori conducono per due settimane un’esistenza di normale ristoro e sollazzo per dei membri della classe sociale più ricca come loro sono, ma eccezionale date le circostanze: si prendono cura del corpo e della mente durante il tempo tragico della pestilenza. Corpo e mente si risollevano grazie soprattutto all’aiuto della parola letteraria. I dieci giovani infatti, per decisione comune, ogni giorno dal lunedì al venerdì raccontano a turno una novella ciascuno, sotto il reggimento di un re o di una regina di giornata.
Il Decameron è un’opera innovativa e allo stesso tempo radicata nella tradizione letteraria precedente. Come tutti i capolavori, esso segna l’inizio di una nuova stagione letteraria e contemporaneamente rappresenta il frutto più maturo di una lunga storia precedente. Uno degli elementi di maggiore novità è senza dubbio la cornice: è la porzione di testo che si trova all’inizio e alla fine del libro, prima e dopo le cento novelle, ma anche all’inizio e alla fine di ciascuna giornata e prima e dopo ciascuna novella, quando i giovani discutono il tema della giornata o la storia appena raccontata. La cornice è uno spazio testuale sfaccettato che svolge diverse funzioni: tiene insieme le cento novelle (da qui viene appunto la definizione di cornice come perimetro/contenitore delle singole storie raccontate nel Decameron); contiene la storia originale dell’«onesta brigata», il gruppo dei dieci giovani narratori delle novelle; funge da collante tra una giornata e l’altra e tra una novella e l’altra, offrendo particolari della vita in contado dell’«onesta brigata»; contiene i commenti e le riflessioni dei novellatori sulle storie raccontate; contiene un’introduzione all’opera dell’autore in prima persona. È in quest’ultimo livello che i due piani della finzione, quella dei giovani dell’«onesta brigata» e quella dei giovani come novellatori a loro volta, si ricongiungono con la storia della civiltà italiana e fiorentina del XIV secolo. I primi 48 paragrafi della cornice costituiscono infatti una Introduzione dell’autore all’intero Decameron. È qui che la peste fa la propria drammatica apparizione, affermandosi come il vero protagonista dell’Introduzione.

La peste nera

Boccaccio per ben 48 paragrafi parla degli effetti che nel 1348 l’epidemia di peste nera provoca a Firenze e nelle campagne circostanti. Si tratta della pandemia causata dal batterio Yersinia pestis, arrivato in Europa probabilmente su navi mercantili provenienti dai porti mediorientali. La malattia, che a partire da allora rimane a lungo endemica tra le popolazioni europee, è veicolata agli uomini dai roditori, ratti in particolare, e la loro proliferazione, e più in generale le scarse condizioni igieniche che ne facilitano la sopravvivenza e riproduzione, aumenta notevolmente il rischio del contagio.

Una Firenze infernale

Boccaccio, come del resto la scienza medica del suo tempo, ignora l’eziologia della peste e, allo stesso modo dei suoi contemporanei, si trova in grande dubbio sulle pratiche da osservare per curare la malattia, sradicarne la causa e limitarne la diffusione.
Se l’origine è avvolta in un mistero che la scienza trecentesca non sa sciogliere, a Boccaccio sono invece ben chiari gli effetti che l’epidemia produce sul corpo fisico e morale dei singoli individui e del popolo nel suo insieme. Le relazioni interpersonali non resistono alla sfida imposta dalla malattia: il più vicino, per affetto o consuetudine – l’amico, l’amante, il familiare, il collega –, diventa il più pericoloso tramite della malattia, così come noi lo siamo per lui. La crisi pestilenziale sconvolge la salute, la società e il linguaggio, poiché ribalta il significato abituale delle parole: vicino/lontano, condivisione/estraneità, altruismo/egoismo si scambiano di posto. Le famiglie si infrangono, i padri sospettano dei figli e viceversa, i malati vengono abbandonati al loro destino di morte quasi certa. Sia il corpo fisico dei cittadini sia il corpo morale della comunità portano i segni della peste. È questa la sfida che il contagio lancia all’umanità: come è possibile mantenere saldo il vincolo comunitario proprio mentre prudenza e istinto sembrano consigliare isolamento e separazione? Boccaccio descrive una Firenze infernale in cui la compassione è esaurita dalla paura, le relazioni sono marchiate dal sospetto e dal cinismo, l’umano è avvilito sino a diventare materia bruta e animale, puro istinto di sopravvivenza. Il punto di vista dell’autore è quello di un uomo di lettere che non ritrae lo sguardo dalla tragedia della peste e dalle sue drammatiche conseguenze, ma che anzi fa ricorso alla sua cultura letteraria per trovare le parole in grado di dire il male e un progetto artistico che tenti, pur nel tempo della crisi estrema, di conservare un significato positivo all’esistenza. Il potere della letteratura non è certo quello di sconfiggere il male, perché la letteratura non è scienza medica, ma quello di registrare il male, elaborarne la fenomenologia e rappresentarne gli effetti, misurare l’orma che lascia sugli uomini. Boccaccio nomina il male, rappresentato storicamente dall’epidemia pestilenziale del 1348, per così ricondurlo a una misura umana, razionale, affrontabile. Trova le parole per dire il male, e trovarle significa, da una parte, riportare la malattia nello spazio del dicibile e quindi ridimensionarne gli effetti sull’animo degli uomini e, dall’altra, immaginare il mondo dopo il male.

Le parole per dire il male

Il lessico della peste nell’Introduzione del Decameron è variegato, multiforme, quasi a simboleggiare il tentativo di Boccaccio di catturare un’esperienza chiara negli effetti, ma oscura nella genesi e in buona parte della sua esistenza. Il male è detto innanzi tutto
• attraverso una parola spoglia che indica la nuda cosa: «pestilenza» (§14 e 25), «pistolenza» (§24);
• con il supporto di un aggettivo rivelatore: «mortifera pestilenza» (§ 8), «crudel pestilenzia» (§ 64);
• diventando esso stesso un plastico aggettivo: «pestifera mortalità» (§ 2), «pestifera infermità» (§ 47);
• tramite una eloquente sostituzione sinonimica: «noioso principio» (§ 2), «orrido cominciamento» (§ 4)

Le parole per curare il male

Esiste anche una costellazione verbale che funge da antidoto del male e ruota attorno ai lemmi «onesto» e «convenevole». Convenevole, lemma che appare frequentemente nelle parole dei novellatori lungo le cento novelle, è ciò che è adeguato, adatto o necessario dire o fare secondo le circostanze del caso. Adeguato a cosa? A quel principio di razionalità e giustizia che è connaturato nell’uomo buono. «Convenevole» è quell’azione, pratica e verbale: il fare e il dire, che contraddistingue l’uomo buono e razionale da quello dissennato e malizioso. L’uomo onesto, in altre parole. E proprio onestà è l’altra parola-chiave che, soprattutto nella cornice, Boccaccio adopera come cordone difensivo contro il male rappresentato dalla peste. I dieci giovani novellatori sono saggi, cortesi e virtuosi, tanto da formare una «onesta brigata» (Proemio §13), caratterizzata da «leggiadra onestà» (§50), di «buona compagnia e onesta» (§ 82). 

Il tema nel tempo

La pestilenza come tema letterario ha attirato l’attenzione degli scrittori sin dall’antichità classica. Omero (Iliade), Sofocle (Edipo re) e Tucidide (La guerra del Peloponneso) presso i Greci, Lucrezio (Sulla natura delle cose) presso i Latini hanno descritto la violenza dell’epidemia e mostrato lo sgomento dell’umanità al suo cospetto. Con intenzioni tuttavia diverse: nel caso di Omero la peste è la punizione inflitta dagli dei all’acheo Agamennone a causa della sua arroganza sacrilega; nel caso di Sofocle è la manifestazione concreta del destino sventurato che perseguita le azioni di Edipo, macchiatosi di una colpa antica e incancellabile, sebbene inconsapevole; nel caso di Tucidide e di Lucrezio è l’imprevedibilità della natura che sovverte i piani di intere città e popoli, lo scatenarsi della potenza incontrollabile che può annientare l’uomo in qualsiasi istante.
Al di là degli usi diversi, artistici o intellettuali, cui il tema della peste è piegato, già negli autori antichi appaiono alcuni elementi caratteristici che si ripresentano in Boccaccio e dopo di lui anche in molti autori successivi che si occuperanno del tema. Se ne può ricavare un quadro tipico della rappresentazione letteraria della peste, avvertendo che non tutti gli elementi in esso indicati devono essere sempre compresenti negli autori e nelle opere interessate. Ecco quali sono gli elementi strutturali della rappresentazione letteraria della peste: il terrore, verso un male di cui si ignora il principio d’azione e spesso la stessa genesi; l’angoscia, spesso accompagnata da senso di colpa, perché l’umanità vittima vive la malattia come punizione per un peccato compiuto; l’impotenza, a causa dell’incapacità di contrapporsi a un male in apparenza invincibile; il capovolgimento dell’ordine, causato dallo stravolgimento della vita comunitaria da parte del contagio. Questo schema può essere riassunto attraverso alcune parole-chiave: ignoranza (nei confronti dell’eziologia e della cura della malattia); paura (nei confronti del pericolo mortale rappresentato dalla pestilenza); colpa (la peste intesa come punizione divina o trascendente); frustrazione (di fronte alla violenza imbattibile della malattia); sconvolgimento (dello spazio comunitario, poiché il timore del contagio porta al sospetto verso l’altro uomo); ordine (tutte le pratiche, sociali o mediche, che hanno fine terapeutico si possono intendere come tecniche per ristabilire l’ordine nel corpo fisico e sociale). Le parole individuate possono a loro volta essere affiancate con profitto, formando in alcuni casi i poli di una coppia, in altri dei campi di tensione dentro cui i testi, a partire dall’Introduzione del Decameron, si muovono: ignoranza/paura, colpa/frustrazione, sconvolgimento/ordine.

Attività didattiche proposte

1) A. Individua nel brano proposto (Decameron, Introduzione I §§ 8-48) i paragrafi dove, a tuo avviso, appaiono in maniera più evidente i nuclei tematici riassumibili come segue: ignoranza; paura; frustrazione; sconvolgimento; ordine;
B. Dopo aver individuato i paragrafi, dove uno o più dei nuclei tematici suddetti appare, prova a elencare le parole che Boccaccio utilizza per costruire tali ambiti semantici (ad esempio, quali parole-chiave l’autore utilizza per descrivere la paura che molti fiorentini provano di fronte alla peste?)
2) Componi un testo argomentativo sul tema della peste e del potere contenitivo della letteratura, secondo il modello previsto dalla tipologia B dell’esame di Stato.