FuoriClasse - Il contagio del male da Manzoni a Levi

A cura di Giuseppe Palazzolo

Unità didattica

Nel secondo capitolo dei Promessi sposi Renzo, dopo aver scoperto che è stato don Rodrigo a impedire il suo matrimonio con Lucia, medita atroci propositi di vendetta:

Renzo intanto camminava a passi infuriati verso casa, senza aver determinato quel che dovesse fare, ma con una smania addosso di far qualcosa di strano e di terribile. I provocatori, i soverchiatori, tutti coloro che, in qualunque modo, fanno torto altrui, sono rei, non solo del male che commettono, ma del pervertimento ancora a cui portano gli animi degli offesi. Renzo era un giovine pacifico e alieno del sangue, un giovine schietto e nemico d’ogni insidia; ma, in que’ momenti, il suo cuore non batteva che per l’omicidio, la sua mente non era occupata che a fantasticare un tradimento. (PS II, 47)
Renzo è corrotto, come nota Raimondi, dalla «stessa logica dei suoi antagonisti, contaminando senza saperlo la sua sofferenza di innocente, il suo diritto di anima immortale». Reagisce all’ingiustizia subìta progettando piani di vendetta e solo il pensiero di Lucia suscita in lui la memoria dell’educazione ricevuta, lo trattiene momentaneamente dai suoi propositi violenti, ostacola la diffusione del male. Ma egli lotta durante tutto il romanzo contro questo contagio, di cui la peste si può considerare palese metafora, fino a quella sorta di resa dei conti che è l’episodio del lazzaretto del cap. XXXV.

Il commento manzoniano ha nutrito la riflessione e la scrittura di Primo Levi: appare in un passaggio fondamentale dei Sommersi e i salvati, forse il suo libro più manzoniano, quasi ispirato alla consegna di Renzo di «formare un buon processo addosso a tutti quelli che hanno commesso di quelle bricconerie» (PS XIV, 14) e continuamente percorso da motivi provenienti dai Promessi sposi: dalla descrizione del Lager, in cui pare rivivere la memoria del lazzaretto, alla nostalgia della patria, rievocata con l’«Addio monti» di Lucia, alla distinzione tra buon senso e senso comune usata nel discorso sugli stereotipi. Prima di affrontare la questione della collaborazione di alcuni prigionieri con l’autorità del Lager, Levi nota la difficoltà di valutare le responsabilità di chi si trova ad agire in uno stato di costrizione, aggiungendo che

lo sapeva bene il Manzoni: “I provocatori, i soverchiatori, tutti coloro che, in qualunque modo, fanno torto altrui, sono rei, non solo del male che commettono, ma del pervertimento ancora a cui portano gli animi degli offesi”. La condizione di offeso non esclude la colpa, e spesso questa è obiettivamente grave, ma non conosco tribunale umano a cui delegarne la misura.

Il brano è ben più di una citazione: è il seme, piantato fin da Se questo è un uomo, da cui si sviluppa la fondamentale meditazione sulla «zona grigia» contenuta nell’ultimo libro leviano. Lo stesso autore ha riconosciuto la lunga influenza della pagina manzoniana sulla sua elaborazione del dramma di Auschwitz:

vorrei parlare di un tema che è accennato in Se questo è un uomo e nella Tregua, e che ho trovato già in Manzoni, quando Renzo Tramaglino minaccia don Abbondio con il coltello. Manzoni osserva che l’oppressore, don Rodrigo, è responsabile anche delle minori oppressioni fatte dalle sue vittime. È un tema che conosco molto bene. È un errore stupido il vedere tutti i demoni da una parte e tutti i santi dall’altra. Invece non era così. Questi santi o oppressi erano in maggiore o minore misura costretti a compromessi, anche molto gravi qualche volta, davanti a cui il giudizio può essere assai difficile. […] Io non sono un giurista e penso che siano delle cose estremamente difficili da giudicare. Ma vanno pure giudicate, e soprattutto conosciute, non ignorate. Il dividere in bianchi e neri vuol dire non conoscere l’essere umano. È un errore, serve solo nelle celebrazioni.

Non sono ignote alla critica le tappe di questa lunga crescita, germinata dal tema della mancata solidarietà degli «oppressi» del Lager e capace di espandersi fino a raggiungere tutto il genere umano. Levi assume fin nel lessico – oppressori/oppressi, soverchiatore/vittima – l’analisi manzoniana, ma la trapianta nel buco nero di Auschwitz, e pur sforzandosi di tenere sempre distinte le vittime dai carnefici, afferma che nessuno può considerarsi immune dal contagio del male che assume il volto e il nome del potere. La «zona grigia», quello spazio variegato composto da prigionieri-funzionari che hanno trovato una nicchia di sopravvivenza distinguendosi dalla massa dei deportati, non è rimasta confinata nei recinti del Lager, ha continuato ad esistere anche dopo la guerra, dopo la liberazione, dopo i giudizi dei tribunali. Perché banalmente la zona grigia è la tendenza connaturata nell’uomo a lasciarsi irretire dal potere, a prolungare la catena delle violenze nel tempo e nello spazio attraverso un procedimento mimetico che, nel grigiore dei suoi comportamenti, reclama la garanzia dell’irresponsabilità.

Manzoni e Levi condividono l’idea che il potere di corruzione del prevaricatore sulla vittima sia un’aggravante della colpa del primo: «un ordine infero, qual era il nazionalsocialismo, esercita uno spaventoso potere di corruzione, da cui è difficile guardarsi. Degrada le sue vittime e le fa simili a sé, perché gli occorrono complicità grandi e piccole», nota Levi, chiedendosi però subito dopo che se l’«ossatura morale» di Chaim Rumkowski, l’ambiguo Presidente del ghetto di Łódź, era debole, «quanto è forte la nostra, di noi europei di oggi?». La risposta arriva alla conclusione del capitolo: «come Rumkowski, anche noi siamo così abbagliati dal potere e dal prestigio da dimenticare la nostra fragilità essenziale: col potere veniamo a patti, volentieri o no, dimenticando che nel ghetto siamo tutti, che il ghetto è cintato, che fuori del recinto stanno i signori della morte, e che poco lontano aspetta il treno.»
L’espressione leviana si è diffusa con una tale intensità da diventare una metafora e travisare talvolta l’accezione originaria. È bene dunque tornare alle pagine dei Sommersi e i salvati per appuntare qualche altra osservazione in merito al dialogo mentale tra Levi e Manzoni. In prima battuta si può notare che il contagio del male agisce secondo vettori diversi nei due autori. L’impulso alla violenza di Renzo si muove verso l’alto, contro il suo carnefice, elaborando una lucida fantasia di caccia che non esclude, anzi ammette apertamente, la possibilità dell’autoannientamento; solo in un secondo momento, dopo il fallimento dell’incontro con l’Azzecca-garbugli, l’aggressività si scarica orizzontalmente verso Agnese, realizzando la scena prefigurata dai capponi che «s’ingegnavano a beccarsi l’una con l’altra, come accade troppo sovente tra compagni di sventura» (PS III, 13). Si tratta in ogni caso di una compensazione momentanea, visto che fino alla scena del lazzaretto Renzo non smetterà di nutrire propositi di vendetta. In Levi invece la carica corruttiva del male si diffonde orizzontalmente, si rivolge verso i simili, finendo per diventare l’unico principio in base al quale fondare una gerarchia verso il basso nell’universo allucinato del Lager. È come se Levi, pur citando I promessi sposi, alludesse alla Storia della Colonna infame e a quell’intrigo di pressioni, lusinghe, violenze che rendono le vittime a loro volta colpevoli.
La consapevolezza della sottile e resistente capacità corruttiva del male aveva corroso anche la gioia che accompagnava la liberazione da Auschwitz. Nelle prime pagine de La tregua, la narrazione del viaggio di ritorno dall’inferno del lager, Levi osserva profeticamente in questi termini la persistenza del male subito, ferita insanabile che dall’individuo si estende a un popolo e a una generazione, e mantiene la sua potenza di perversione nel tempo:

Così per noi anche l’ora della libertà suonò grave e chiusa, e ci riempì gli animi, ad un tempo, di gioia e di un doloroso senso di pudore, per cui avremmo voluto lavare le nostre coscienze e le nostre memorie della bruttura che vi giaceva: e di pena, perché sentivamo che questo non poteva avvenire, che nulla mai più sarebbe potuto avvenire di così buono e puro da cancellare il nostro passato, e che i segni dell’offesa sarebbero rimasti in noi per sempre, e nei ricordi di chi vi ha assistito, e nei luoghi ove avvenne, e nei racconti che ne avremmo fatti. Poiché, ed è questo il tremendo privilegio della nostra generazione e del mio popolo, nessuno mai ha potuto meglio di noi cogliere la natura insanabile dell’offesa, che dilaga come un contagio. È stolto pensare che la giustizia umana la estingua. Essa è una inesauribile fonte di male: spezza il corpo e l’anima dei sommersi, li spegne e li rende abietti; risale come infamia sugli oppressori, si perpetua come odio nei superstiti, e pullula in mille modi, contro la stessa volontà di tutti, come sete di vendetta, come cedimento morale, come negazione, come stanchezza, come rinuncia.

Approfondimenti

Il giudizio manzoniano e la corrispondente riflessione leviana è messa a tema da S. Natoli, L’animo degli offesi e il contagio del male, prefazione di M. Barenghi, Milano, il Saggiatore, 2018. La ricca trama intertestuale che intercorre tra Manzoni e Levi è indagata da A. Rondini, Manzoni e Primo Levi, in «Testo», luglio-dicembre 2010, 60, pp. 49-86, e da M. Belpoliti, Primo Levi di fronte e di profilo, Milano, Guanda, 2015 nel relativo lemma. Sulla «zona grigia» si concentra il dossier approntato dal Centro internazionale di studi Primo Levi con i contributi, tra gli altri, di Anna Bravo, Marco Belpoliti, Carlo Ginzburg. La genesi dell’ultimo libro leviano è ricostruita da M. Mengoni, I sommersi e i salvati di Primo Levi. Storia di un libro (Francoforte 1959-Torino 1986), Macerata, Quodlibet, 2021. Insegue le tracce della voce contagio nel vocabolario leviano G. P. Bisin, Contagio, in «Riga», 13, a cura di M. Belpoliti, Milano, Marcos y Marcos, 1997, pp. 254-266.

Attività didattiche proposte

1) Individua nei brani proposti la ricorrenza di lemmi comuni e cerca di analizzare le diverse accezioni semantiche con cui vengono usate da Manzoni e da Levi.
2) Analizza i capp. XXXI, XXXII e XXXIV dei Promessi sposi e sintetizzali in un testo di 1500 parole. Quindi rispondi alle seguenti domande: quali sono i provvedimenti presi dalle autorità? Di quale ‘contagio’ si preoccupano?
3) Alla luce della riflessione manzoniana e leviana componi un testo argomentativo sul tema del contagio, secondo il modello previsto dalla tipologia B dell’esame di Stato.